Se ci facciamo bloccare dalla convinzione di sapere come andranno le cose… non ci lasceremo mai la possibilità di scoprire… che potrebbero andare diversamente…
Nella nostra vita siamo entrati in contatto con diversi e variegati modi di pensare e di vedere le cose, sguardi sulla realtà a volte completamente opposti gli uni agli altri, e modi di assorbire, e conseguentemente reagire agli eventi, assolutamente dissimili. Questo perché ognuno ha un proprio particolare modo di metabolizzare ciò che accade, riporlo nello scrigno dell’esperienza e catalogarlo in base alla personale e unica maniera di essere. Certo, distinguere tra un evento e accaduto e qualcosa che sta per verificarsi non è semplice perché la memoria emotiva tende, in virtù della catalogazione di cui parlavo poco fa, ad accomunare episodi e comportamenti vicini per caratteristiche e modalità e riporli sotto l’elenco delle cose da evitare o quelle da accogliere.
Questo tipo di atteggiamento se da un lato ci tutela da eventuali dispiaceri o delusioni, dall’altro ci induce a porci sul piedistallo del giudizio attraverso cui guardiamo la realtà limitandone invece le infinite possibilità e sfaccettature. Ecco dunque che la suddivisione in categorie di appartenenza ci porta a escludere una classe di persone che, a volte neanche per loro scelta, presentano le medesime caratteristiche di un precedente che avevamo allontanato; oppure assimiliamo il comportamento di un soggetto ad altri che abbiamo conosciuto solo opinandone alcuni aspetti e trascurandone, o addirittura ignorandone, altri che ci rivelerebbero quanto questi ultimi lo rendano diverso e unico; e infine, e questa è forse la peggiore tra le tre ipotesi, diamo una sentenza in base a un solo atteggiamento, dipingendoci un quadro completo della persona che, senza un’adeguata e approfondita conoscenza, non dovremmo mai consentire a noi stessi di fare.
Perché tendiamo molto spesso a giudicare gli altri in base a memorie del passato, dimenticandoci che noi per primi non vorremmo mai essere giudicati?
Come mai ci lasciamo tentare dall’approssimativo e irreale atteggiamento che ci induce a cadere nel luogo comune, diventando noi per primi vittime di credenze limitanti a cui non vorremmo essere sottoposti?
E ancora, chi ci autorizza a determinare cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, considerando che quello attraverso cui esprimiamo la valutazione è solo e unicamente il nostro personale punto di vista filtrato dalla nostra esperienza e dal nostro modo di essere?
La società contemporanea, tanto evoluta per quanto riguarda la tecnologia, l’informazione e il progresso, dal punto di vista umano resta ancora legata a un modo di vivere e vedere l’individualità come una contrapposizione a se stessa. Quindi la molteplicità dell’individuo e i differenti punti di vista e di vivere non sono ancora sdoganati da quella necessità di adeguarsi a regole imposte che nella maggior parte dei casi limitano e appiattiscono, oltre a indurre a guardare l’altro non come un essere diverso da noi con il medesimo diritto di essere ciò che vuole bensì come a qualcuno da cui difendersi se non si comporta o pensa come noi abbiamo arbitrariamente deciso che sia giusto fare. Forse perché per la maggior parte di noi il modello prestabilito, il compartimento stagno, è rassicurante, non fa paura poiché non richiede il coraggio di uscire dal coro e far sentire la propria voce in un assolo che potrebbe anche prendere una nota sbagliata, ma sicuramente renderebbe liberi di cantare una melodia unica.
Pensare di categorizzare qualcuno solo perché rientra in uno schema nel quale ci siamo imbattuti nel nostro passato, ci impedisce di scoprire quanto invece potrebbe essere diverso da ciò che abbiamo immaginato. Così come basarsi su cosa vogliamo e desideriamo noi per determinare come sia giusto e sbagliato che gli altri si comportino, è una presunzione poiché sottintende l’esageratamente alta valutazione di noi stessi, come se fossimo i detentori di una verità assoluta che in natura non esiste.
Dunque quando ci troviamo davanti a una situazione nuova da affrontare o da vivere, dovremmo semplicemente essere capaci di percorrere la strada, conoscere la situazione per come è, senza alcuna zavorra del passato se non la consapevolezza di ciò che fa bene o meno a noi, e vedere dove ci può condurre, quanto ci può arricchire e quanto quella nuova realtà ci può portare un modo nuovo di vedere le cose, noi stessi e gli altri. Seguendo il ritmo della continua evoluzione, del continuo scorrere, che deve far parte dell’essere umano, senza che il pregiudizio o il sortilegio del luogo comune ci facciano cadere nell’insidia dell’immobilità.
Marta Lock